IX

IL LAVORO DELLO STILE E LE TRE REDAZIONI DEL POEMA

Alla suprema espressione poetica dell’Orlando Furioso l’Ariosto giunse con un lavoro complesso, ricco di ispirazione, ma anche fatto di impegno tecnico e stilistico altissimo.

Lontano da ogni ingenua improvvisazione, e pur dotato di eccezionale forza fantastica e ispirativa, egli mostra una continua costanza in uno strenuo labor limae, che non resta mai semplice rifinitura esteriore, ma si fonde con la stessa operazione creativa, di cui non è che una continuazione ugualmente motivata su misure di poetica concreta, non di ripulitura ornamentale. E si può richiamare, a ricordare la costanza di questo lavoro, quel brano della lettera al doge di Venezia, da noi già citato, dove egli, chiedendo la protezione della stampa prossima del suo poema da contraffattori e da stampatori concorrenti, asserisce di averlo composto «cum mie longe vigilie e fatiche»[1].

Come già abbiamo accennato, il poema fu riveduto fondamentalmente due volte: pubblicata nel 1516 la prima edizione, ne fu apprestata una seconda, con vari ritocchi, nel 1521, e ancora una terza, piú largamente riveduta e arricchita, nel 1532; sappiamo poi, da una lettera dell’autore, che egli aveva intenzione di portare ulteriori arricchimenti al suo capolavoro, cosa che, purtroppo, gli fu impedita dalla morte.

Il passaggio dalla prima alla seconda edizione non riveste una importanza particolare: si limita piú che altro all’inizio di una revisione di carattere linguistico e stilistico, incentrata sull’eliminazione di alcuni eccessivi dialettismi, particolarmente emiliani, che, sulla scia del Boiardo, erano abbastanza frequenti nell’opera, e di alcuni latinismi troppo crudi e pesanti. Per quanto riguarda la materia del poema, essa non trova, in questa fase, vere variazioni e arricchimenti, e il numero dei canti resta quello di quaranta.

Sembra che in questo stesso periodo l’Ariosto, nella complessità dei suoi interessi poetici, abbia avviato un tentativo poetico di diversa impostazione, che noi non sappiamo fino a qual punto e in quali misure potesse essere riassorbito nell’Orlando Furioso.

Si tratta dei cosiddetti Cinque Canti, che egli ad un certo punto interruppe, tralasciando di portarli avanti, e che corrispondono a un certo incupirsi e amareggiarsi della sua fantasia. La loro datazione è molto difficile e ha suscitato molte discussioni: c’è chi propende, con una ipotesi sostanzialmente piú plausibile, per una zona intorno al 1519; e in questo caso l’aggancio autobiografico per la nuova dimensione dell’opera sarebbe costituito soprattutto dalle delusioni che la vita di corte procurava al poeta (dopo la generale ingratitudine e incomprensione mostrata dal cardinale Ippolito verso di lui). Un’altra ipotesi propone una datazione piú tarda, tra il ’21 e il ’28: e in questo caso l’incupirsi della visione ariostesca corrisponderebbe anche alla situazione politica del tempo, che vedeva ormai delinearsi sempre piú chiaramente e drammaticamente la crisi della libertà italiana.

Comunque, nell’impossibilità di fermarci qui a discutere queste ipotesi di datazione, dobbiamo limitarci a sottolineare nei Cinque Canti la presenza di una sensibilità piú crucciata, piú amareggiata, che si traduce anche in alcuni versi, che portano troppo avanti quel sentimento doloroso della vita, che certo non mancava all’Ariosto piú genuino, ma che qui assume qualcosa di troppo crudo e tetro, di non piú fuso nell’equilibrio unitario che è caratteristico del Furioso:

O vita nostra di travaglio piena,

come ogni tua allegrezza poco dura!

Il tuo gioir è come aria serena,

ch’alla fredda stagion troppo non dura:

fu chiaro a terza il giorno, e a vespro mena

súbita pioggia et ogni cosa oscura [...][2].

La narrazione stessa diventa in qualche modo piú pesante, spesso troppo prosastica, tanto che, ad esempio, l’elemento del meraviglioso non riesce piú a trovare quella fusione mirabile col naturale, che abbiamo notato come una delle costanti del Furioso, ma diventa qualcosa di piú esterno, di piú materiale.

In fondo l’Ariosto fece molto bene (e risultò, anche in questo, grande poeta e giudice di se stesso) ad abbandonare questa direzione sostanzialmente sbagliata e a ritornare ancora al suo grande poema, sul quale lavorò a lungo negli anni che precedettero l’edizione del 1532.

Il lavoro preparatorio di questa edizione, la definitiva, si sviluppò in due direzioni fondamentali: da una parte quella di una revisione linguistica e stilistica, già avviata, anche se con minore sistematicità, per la seconda edizione; dall’altra quella di un arricchimento di episodi e di materia.

Per quanto riguarda la revisione linguistica, essa si appoggiava soprattutto alla posizione di Pietro Bembo, che nelle sue Prose della volgar lingua (uscite nel 1525) proponeva, per l’uso letterario, una lingua basata sull’esempio dei grandi scrittori fiorentini del Trecento, Dante, Petrarca, Boccaccio, soprattutto Petrarca per la poesia, e Boccaccio per la prosa. L’Ariosto accettò nella sua sostanza la proposta del Bembo (di cui, del resto, doveva aver conosciuto i termini già prima della pubblicazione delle Prose): e il grande letterato veneziano è da lui altamente elogiato agli inizi del canto XLVI del Furioso:

là veggo Pietro

Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro,

levato fuor del volgare uso tetro,

quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro.

(XLVI, 1, vv. 1-4)

L’adesione dell’Ariosto a questa proposta linguistica trova le sue ragioni da una parte nella sua esigenza di dare sempre piú al poema un carattere largamente nazionale, con una lingua che potesse essere accettata e riconosciuta da tutto il mondo letterario italiano; dall’altra, nella sua aderenza sicura, che la lingua del Trecento, e in particolare quella petrarchesca, gli permetteva di accrescere, a quel gusto di organicità e di armonia, di perfezione anche fonetica e musicale, a cui egli tanto teneva per le ragioni piú interne e profonde della sua poesia, e non certo per una sensibilità estetistica tutta esterna e fine a se stessa.

Su questa strada aperta dal Bembo (ma va detto insieme, a sottolineare ancora il rapporto non servile del poeta rispetto alle regole piú rigide del classicismo del tempo che egli, mentre accettò questa proposta linguistica, rifiutò invece di aderire all’altra idea bembesca di un modello unico e necessario per raggiungere la perfezione) l’Ariosto compí una minuta revisione del suo poema, la cui analisi ci porterebbe a confermare la sua tensione verso un mondo di nuove proporzioni e di perfetta coerenza, verso un alleggerimento fantastico contemporaneo ad una sensibilizzazione sempre piú concreta e vitale.

Uno studio delle varianti tra le diverse edizioni ariostesche impone infatti all’attenzione dei lettori un costante ripudio di fissazioni realistiche o descrittive per precisazioni di armonia e di durata di suono: non che sia assente da queste correzioni la preoccupazione della maggior evidenza dell’immagine, ma questa è rivista sempre come immagine in movimento, mai gustata per se stessa, ma risolta perfettamente entro il ritmo di un movimento musicale.

Ci è già occorso di accennare ad una variante molto interessante in questo senso, nell’episodio della morte di Zerbino: nell’ottava famosa del bacio di Isabella (canto XXII, 80), il sesto verso nelle prime due edizioni suonava:

impallidisca in la siepe spinosa.

La lezione definitiva (canto XXIV dell’ediz. del ’32) è invece questa:

impallidisca in su la siepe ombrosa.

Qui è manifesta la preoccupazione di eliminare quell’«in la», scorretto, secondo le regole del Bembo, e anche tale da arrecare un intoppo all’interno del verso, che con la lezione definitiva si libera in un fluire piú largo. Ma piú ancora è da notare l’importanza della sostituzione di «ombrosa» a «spinosa», per l’eliminazione del suono troppo aspro e consonantico all’inizio della parola, e soprattutto per la creazione di un’immagine infinitamente piú suggestiva e coerente con le immagini di languore, di idillio elegiaco, di pallore di tutta l’ottava («spinosa» suscitava un’immagine piú comune, piú facilmente pittoresca, «ombrosa» porta invece con sé una ben maggiore finezza di colore visivo e sentimentale coerente all’«impallidisca»).

E si guardi almeno un altro esempio, che mostra come la preoccupazione musicale non sacrifica mai altre possibili preoccupazioni ed anzi coincide anche con i vari momenti di solennità, la quale nasce spesso proprio insieme al bisogno di una individuazione migliore del ritmo: nel punto piú alto della pazzia di Orlando, l’ottava 111 del canto XXIII (XXI nelle prime due edizioni) nelle prime edizioni cominciava sbiadita ed informe:

Piú e piú volte, rilesse quel scritto (’16)

Piú volte e piú lesse e rilesse il scritto (’21)

Nella edizione del ’32 il sublime è raggiunto di colpo con una progressione di numeri indicante la tensione sentimentale, ma soprattutto chiaramente mirante a precisare potentemente il ritmo che prepara lo scoppio del tema della pazzia:

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto [...].

L’altra direzione del lavoro che precedette l’edizione del 1532 fu, come già abbiamo accennato, quella di un arricchimento del poema nel senso della materia, che si concretizzò nell’aumento dei canti da 40 a 46. Tra queste aggiunte, o «giunte», come le chiamava l’autore, se ne potranno distinguere alcune che sembrano testimoniare, nella parabola artistica e poetica dell’Ariosto, un certo declino della piú originale forza fantastica, parallelo alla stanchezza dei Cinque Canti, come il lungo episodio di Ruggiero e Leone, aggiunto nell’ultima parte dell’opera, intonato a forme piú monotone, narrativamente meno alacri ed elastiche di quelle consuete. Ma non mancano poi episodi, come quello minore, di tipo novellistico, di Marganorre, e soprattutto quello, famosissimo, di Olimpia, che testimoniano della sempre notevolissima forza poetica dell’Ariosto, che veniva cosí ad arricchire, anche con episodi di alta poesia, il suo capolavoro, in un allargamento armonico e circolare di quel senso profondo del ritmo vitale nel suo movimento vario e complesso.

Sarà cosí utile, a riepilogare in un certo senso il nostro discorso sul poema, a rivederne la compiuta fusione di elementi disparati in un ritmo unitario e centrale, una breve sosta proprio sull’episodio di Olimpia, che, innestato nel canto IX nell’edizione del ’32, prosegue, fino al canto XI, con una larga ricchezza di spunti e di motivi, alternandosi e riallacciandosi con la storia della feroce isola di Ebuda. Meritamente famoso, in questo lungo episodio, è il passo che descrive l’abbandono di Olimpia su di una isola deserta da parte del perfido Bireno, del tutto immemore dell’immensa prova d’amore che la donna gli ha offerto. È uno di quei momenti in cui la sensibilità dell’Ariosto sa toccare anche le corde piú dolorose, assorbendole naturalmente nel fluire del suo ritmo fantastico, ma conservando, pur nella suprema stilizzazione, un profondo calore di verità e di umanità, risolta in figure e in movimenti piú che in espliciti discorsi sentimentali. La presenza del modello classico (qui il lamento di Arianna nel carme LXIV di Catullo e nella X delle Heroides di Ovidio) vale soprattutto come stimolo letterario a raggiungere quel supremo equilibrio che va al di sopra della realtà concreta e che pur resta di essa fortemente sostanziato; ma il risultato è di una originalità potentissima e assoluta.

Già nella prima scena, quando Bireno abbandona il letto e la tenda dove dorme Olimpia e si dirige verso la nave, che poi salpa immediatamente, si attua un forte crescendo drammatico:

Il falso amante che i pensati inganni

veggiar facean, come dormir lei sente,

pian piano esce del letto, e de’ suoi panni

fatto un fastel, non si veste altrimente;

e lascia il padiglione; e come i vanni[3]

nati gli sian, rivola alla sua gente,

e li risveglia; e senza udirsi un grido,

fa entrar ne l’alto e abandonare il lido.

(X, 19)

Prima l’attesa, poi il cauto scivolare dal letto e l’accurata raccolta dei vestiti; poi, appena fuori, la meticolosa lentezza si cambia in ansiosa velocità; infine la sublime impassibilità sotto cui si apre la visione della partenza frettolosa e muta.

La ripresa, che allontana definitivamente la nave dalla spiaggia deserta, concentra su questa tutto un insieme di risonanze, facendone, nella sua indeterminata vaghezza, un luogo che segna il distacco e il legame con la nave lontana, il limite e la via dell’unico mondo che in questo momento interessa il poeta:

Rimase a dietro il lido e la meschina

Olimpia, che dormí senza destarse,

fin che l’Aurora la gelata brina

da le dorate ruote in terra sparse,

e s’udir le Alcïone alla marina

de l’antico infortunio lamentarse.

Né desta né dormendo, ella la mano

per Bireno abbracciar stese, ma invano.

(X, 20)

Mai cosí intensamente un paesaggio sfumato, incerto ha vibrato con tanta ricchezza di suggestioni e di direttive spaziali, musicali, pittoriche. L’ora incerta e livida dell’alba e il lamento degli alcioni che introduce una nota di sventura famosa (è un richiamo al mito di Alcione, figlia di Eolo, che, appena seppe della morte del marito Ceice, si gettò in mare e fu trasformata dagli dèi insieme al marito in uccello marino) preparano il disperato risveglio di Olimpia. Né poco incanto ci viene dal brusco ingresso nella tenda, solitaria illusione che separa Olimpia dall’immensità del lido e dalla vista della cattiva realtà.

E nell’ottava che segue, ad un inizio come incosciente – ispirato dalla istintiva sicurezza del possesso del bene amato – succede lentamente, con quel misurare il letto in tutti i suoi sensi, la certezza della solitudine, che sorge proprio sul senso di riposta intimità ancora racchiuso nella tenda:

Nessuno truova: a sé la man ritira:

di nuovo tenta, e pur nessuno truova.

Di qua l’un braccio, e di là l’altro gira;

or l’una, or l’altra gamba; e nulla giova.

Caccia il sonno il timor: gli occhi apre, e mira:

non vede alcuno. Or già non scalda e cova

piú le vedove piume, ma si getta

del letto e fuor del padiglione in fretta [...].

(X, 21)

Poi, con una brusca apertura sullo spazio esterno, si inizia la rappresentazione della disperazione della donna, che si allarga nei tratti di un paesaggio essenziale (si veda, per esempio, l’accenno allo splendere gelido e immacolato della luna), con una forza drammatica che non ha nulla da invidiare a quella dei piú potenti poeti della passione, ma che pure ha un suo tono di equilibrio supremo, che smorza ogni eccessiva precisazione realistica, ogni inutile indugio sentimentale:

e corre al mar, graffiandosi le gote,

presaga e certa ormai di sua fortuna.

Si straccia i crini, e il petto si percuote,

e va guardando (che splendea la luna)

se veder cosa, fuor che ’l lito, puote;

né, fuor che ’l lito, vede cosa alcuna.

Bireno chiama: e al nome di Bireno

rispondean gli Antri che pietà n’avieno.

Quivi surgea nel lito estremo un sasso,

ch’aveano l’onde, col picchiar frequente,

cavo e ridutto a guisa d’arco al basso;

e stava sopra il mar curvo e pendente.

Olimpia in cima vi salí a gran passo

(cosí la facea l’animo possente),

e di lontano le gonfiate vele

vide fuggir del suo signor crudele:

vide lontano, o le parve vedere;

che l’aria chiara ancor non era molto.

Tutta tremante si lasciò cadere,

piú bianca e piú che nieve fredda in volto;

ma poi che di levarsi ebbe potere,

al camin de le navi il grido volto,

chiamò, quanto potea chiamar piú forte,

piú volte il nome del crudel consorte:

e dove non potea la debil voce,

supliva il pianto e ’l batter palma a palma.

– Dove fuggi, crudel, cosí veloce?

Non ha il tuo legno la debita salma.

Fa che lievi me ancor: poco gli nuoce

che porti il corpo, poi che porta l’alma –.

E con le braccia e con le vesti segno

fa tuttavia, perché ritorni il legno.

Ma i venti che portavano le vele

per l’alto mar di quel giovene infido,

portavano anco i prieghi e le querele

de l’infelice Olimpia, e ’l pianto e ’l grido;

la qual tre volte, a se stessa crudele,

per affogarsi si spiccò dal lido:

pur al fin si levò da mirar l’acque,

e ritornò dove la notte giacque.

(X, 22-26)

Al confronto di queste ottave citate, piú deboli appaiono certo le successive, con lo sciogliersi lungo del lamento della donna, in un discorso piú minuto e particolareggiato e anche piú intriso di elementi ovidiani e catulliani.

Ma va detto che i caratteri di questo episodio inserito nell’edizione del ’32 non si esauriscono affatto in questo momento di concentrazione altamente drammatica venata di spunti elegiaci: rivelando la mobilità sempre varia della sua poesia, l’Ariosto non ha trascurato di insistere, in altri momenti del nuovo episodio, su elementi di un sicuro e sereno grottesco, alternati a punte di forza altamente eroica, nella rappresentazione della lotta di Orlando con l’orca (mostruoso personaggio, già presente nella prima redazione del poema, e qui piú sapientemente definito ancora in una compenetrazione di elementi reali e fantastici), né su giochi magari piú preziosi, quasi altissimi esercizi in cui il tragico si scioglie in un familiare disegno scherzoso di una mirabile facilità, come in questa strage che Orlando fa dei seguaci di Cimosco:

Il cavallier d’Anglante, ove piú spesse

vide le genti e l’arme, abbassò l’asta;

et uno in quella e poscia un altro messe,

e un altro e un altro, che sembrâr di pasta;

e fin a sei ve n’infilzò, e li resse

tutti una lancia: e perch’ella non basta

a piú capir, lasciò il settimo fuore

ferito sí, che di quel colpo muore.

(IX, 68)

Questo senso di astratto godimento dell’agevolezza con cui il paladino infilza i suoi nemici si allarga poi in questa similitudine, che è come un prolungamento di quello che di piú vivo c’era nell’ottava precedente:

Non altrimente ne l’estrema arena

veggiàn le rane de canali e fosse

dal cauto arcier nei fianchi e ne la schiena,

l’una vicina all’altra, esser percosse;

né da la freccia, fin che tutta piena

non sia da un capo all’altro, esser rimosse.

(IX, 69, vv. 1-6)

E fra gli altri elementi presenti nell’episodio, possiamo ancora ricordare il gusto tutto ariostesco per forme di bellezza pure e luminose, evidente nel quadro di Olimpia legata nuda al sasso, quando Orlando la libera dall’orca marina (canto XI); o quel senso quasi novellistico dell’azione varia e abbreviata, determinantesi in forme lucide e secche, presente in certi momenti del racconto che la donna fa delle proprie sventure (nel canto IX: e ne abbiamo già ricordato una bella ottava nel capitolo precedente); o, ancora, certo vivo e polemico interesse dell’Ariosto per alcuni aspetti della realtà contemporanea, che trova momenti di sicura ironia, alternati a spunti di assorta tristezza, nella storia del «ferro bugio» di Cimosco (da noi già ricordata al cap. II della sezione II), di cui Orlando si impadronisce per gettarlo in fondo al mare:

– Acciò piú non istea

mai cavallier per te d’essere ardito,

né quanto il buono val, mai piú si vanti

il rio per te valer, qui giú rimanti.

O maladetto, o abominoso ordigno,

che fabricato nel tartareo fondo

fosti per man di Belzebú maligno

che ruinar per te disegnò il mondo,

all’inferno, onde uscisti, ti rasigno –.

(IX, 90-91)

Questa larga varietà di temi e di elementi, pure fusi sapientemente in un unico fluire ritmico, anche in questo episodio, aggiunto nell’ultima edizione del poema, rivela ancora la sicura e costante aderenza dell’Ariosto alla linea della sua poesia, a quella ricerca della varietà della vita riassunta in un ordine superiore, cui egli aveva consacrato la sua strenua attività, nell’esercizio delle sue «longe vigilie e fatiche».


1 Lettere, ed. cit., p. 31.

2 Cinque Canti, II, 34, vv. 1-6, in Opere minori cit., p. 629.

3 Nota vanni: ali.